martedì 6 ottobre 2020

Il Veliero

Vi riporto qui uno degli ultimi racconti che ho scritto: ho provato ad inserire in questa storia dalle tinte dark e misteriose un significato più o meno nascosto. Spero di essere riuscito a trasmettere il messaggio come da intenzione e... spero che vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti!

Il Veliero

Sedevo sulla banchina principale del porto cittadino, con le gambe sospese sull’acqua marina. In quei primi giorni di primavera era ancora limpida, non corrotta dagli scarichi delle grandi barche o dall’eccessivo proliferare di alcuni tipi di alghe infestanti, che con il caldo trovavano un ambiente adatto alla loro diffusione. Riuscivo a intravedere il fondale e qualche piccolo pesce, che apparentemente indaffarato correva di qui e di là tra gli scogli. L’aria salmastra entrava fin dentro le narici, impregnava gli abiti e la pelle, pungeva il volto e sgrassava i capelli, risultando in un forte sapore di sale anche in bocca. Le ultime barche dei pescatori stavano facendo ritorno proprio in quei momenti, dopo una notte in altura alla ricerca di qualche cospicuo bottino. Erano anni ormai che, quasi come se fosse un rituale, mi piazzavo lì ad osservare, prima di recarmi al solito lavoro in bottega. Ammiravo come, quegli ormai attempati uomini riuscissero a muoversi con tanta facilità su quelle piccole barche, schivando reti, lenze, ami, trappole, canestri, canne da pesca e quant’altro ci fosse su quei vecchi legni. Scaricati i pesanti carichi, i più vispi si dedicavano quindi alla pulizia delle loro amate imbarcazioni, cercando di preservarle dalla corrosione della salsedine. Chi passava una mano di vernice qua e là, chi scrostava le carene delle barche portate a secco dagli invadenti balani, chi rattoppava le reti sgualcite e indebolite forse da una pesca fin troppo fruttuosa o forse dal tempo che passa. Tutti erano impegnati e indaffarati in qualcosa che conferisse un qualche senso alla loro giornata, e in prospettiva alla loro vita. Ricercare soddisfazione e appagamento nelle loro modeste attività era l’unica cosa che permetteva loro di sopportare la fatica e la miseria di un’esistenza così umile. Probabilmente molti di loro non sapevano nemmeno perché avessero scelto quella vita. Forse erano stati avviati a quel mestiere dal loro padre che a sua volta era stato dal suo; forse non era nemmeno mai balenata loro in mente la possibilità di fare altro e forse non erano manco a conoscenza delle più gloriose opportunità che la vita avrebbe potuto offrire loro, all’infuori di quel microcosmo, in cui si erano collocati, al quale anche io appartenevo e del quale conoscevo ogni singolo aspetto. Presumibilmente quegli uomini non avevano neanche la benché minima idea di quanto fosse misera la loro condizione, di quanto alcuni fossero sfruttati da altri per il loro interesse e i loro ben più profittevoli affari. Ma il fatto che non se ne rendessero conto era forse la chiave della loro felicità. Beato dono dell’inconsapevolezza. Ad un tratto, prima dell’imboccatura del porto, iniziò a delinearsi la figura di quello che sembrava proprio essere un veliero. Si dirigeva quindi verso l’unica banchina libera in quel momento, ovvero quello dove ero situato io. Poco a poco, mentre si avvicinava, riuscivo a vederlo meglio. Era proprio un veliero, di quelli che si vedono nei migliori film di pirati. Dall’aspetto si intuiva però che quella barca aveva solcato molti e infiniti mari per altrettanti anni. Lo scafo era infatti quasi interamente ricoperto di alghe, oltre a presentare numerosi fori e crepe diffuse. Tutte le vele inoltre, a partire da quelle dell’albero maestro passando per quelle del fuso di Trinchetto e terminando con quelle di Mezzana, erano ingiallite, consumate e rovinate sui bordi. Anche queste presentavano diversi buchi, come fori di proiettile o chissà cos’altro. Alcuni aspetti mi incuriosirono immediatamente: innanzitutto il veliero non riportava alcuna scritta, né a prua né a poppa, apparentemente sembrava quindi non avere nome o porto di battesimo. Non vi erano nemmeno bandiere di riconoscimento che mostravano l’appartenenza a un qualche paese o ad un qualche sovrano. Ma soprattutto, osservando più attentamente, cosa più difficile a credersi che a dirsi, pareva non esserci anima viva né sul castello di prua né su quello di poppa. In particolare, nessuno sembrava reggere il timone che, nonostante questa non irrilevante mancanza, continuava a muoversi guidando la barca fino al punto di attracco. In poco tempo, gli abitanti del posto che si aggiravano per le strade antecedenti il porto notarono questa misteriosa presenza e in molti, nello stupore più assoluto, iniziavano ad affollarsi alle mie spalle e a porsi mille domande sulla natura e sulla provenienza di quell’imbarcazione. Incredibilmente, tra lo stupore generale, senza né cime né corde si fermò proprio davanti alla banchina dove sostavo io, fino a qualche minuto fa. Ci mettemmo tutti in attesa che qualcuno si facesse vivo e scendesse a terra, dichiarando le sue intenzioni. Ma così non fu. Non si intravvedeva il benché minimo movimento o un qualche segno di presenza umana a bordo. Appariva evidente che nessuno si sarebbe fatto vivo nell’immediato. Arrivò infatti la sera e il veliero stava ancora lì, fermo davanti alla banchina principale, scosso solo ogni tanto dal movimento del mare. Nonostante l’immensa curiosità, decisi che ormai era ora di rincasare e me ne andai quindi a dormire. Altri fecero la mia stessa scelta, solo un piccolo gruppo di pescatori decise di rinviare l’uscita in barca di quella sera e di rimanere nell’attesa di un qualche segnale. Quella notte non riuscii quasi a chiudere occhio, il pensiero che qualcosa di oscuro e sinistro potesse accadere nel frattempo mi assillava. Non riuscivo minimamente a togliermi dalla testa l’immagine di quel lugubre veliero tanto inquietante quanto, a tratti, affascinante. Numerosi interrogativi perseguitavano la mia mente, ed ero amaramente costretto ad ammettere a me stesso di non avere una risposta nemmeno ad uno di questi. Pensavo però che forse bisognava solo aspettare mattina e che forse, il giorno dopo, avrei finalmente avuto una risposta a tutte le mie domande e che forse, tutta quella paura mi sarebbe apparsa poi totalmente ingiustificata. Ma così non fu. Sorto il sole i pescatori comunicarono che nulla di rilevante era accaduto quella notte, e che la famigerata barca sostava ancora nel porto del paese. Poco più tardi, quello stesso giorno, mentre mi trovavo in paese per comprare del pane, udii un pianto che si avvicinava e vidi la sorella zitella del parroco del paese correre giù per la strada urlando che don Mattia era scomparso. Disse di essersi recata come ogni mattina a casa sua per preparargli la colazione e di non averlo trovato. Disse anche che la casa non presentava nulla di inusuale, le poche ricchezze del povero prete erano ancora tutte al sicuro al loro posto e che il letto era stato lasciato sfatto. Venne quindi mobilitato l’intero paese per le ricerche del don. Squadre di volontari perlustrarono ogni singola casa, ogni soffitta ed ogni cantina, setacciarono i boschi dietro le colline, batterono ogni sentiero ed ispezionarono ogni barca. Ma del don non vi era alcuna traccia. Si giunse quindi alla conclusione, o meglio, ci si convinse, che il prete era fuggito in uno dei paesi vicini, sopraffatto dalla corruzione spirituale dei suoi concittadini.  Il caso di don Mattia ebbe come principale effetto quello di distogliere per un po' l’attenzione dall’oscuro veliero, che a distanza di una settimana giaceva ancora indisturbato nel nostro porto. Una decina di giorni dopo ci fu però un’altra misteriosa sparizione: il macellaio, apprezzatissimo per i suoi prelibati tagli di carne, era scomparso nel nulla, senza lasciare alcuna traccia. Di lui si disse che probabilmente era scappato per la vergogna, dopo che in paese si diffuse la voce che la moglie da tempo lo tradiva con il figlio del panettiere. Due episodi molto simili, ma apparentemente giustificati, non destarono poi tutta questa grande preoccupazione in paese. E fu così che anche questa volta ci si convinse del fatto che andava tutto bene. Le sparizioni però non cessarono, anzi, aumentarono di quantità e di frequenza, così che nel giro di qualche settimana erano più le persone scomparse che quelle che le cercavano. E di tutte si tendeva a dare una qualche forma di giustificazione. Nel frattempo però, quel veliero tanto inerme e apparentemente innocuo, quanto cupo e tenebroso, giaceva ancora lì al suo posto. Solo dopo la scomparsa del sindaco si iniziò a ipotizzare che potesse avere un qualche ruolo nelle misteriose sparizioni. Dopo questo fatto ognuno iniziò a temere per l’incolumità dei propri figli, genitori, amici, parenti e, soprattutto, di loro stessi. Nessuno si sentiva più al sicuro, eravamo tutti minacciati da una forza subdola, oscura e brillantemente malvagia. Una sera quindi, un gruppo di uomini forzuti e coraggiosi, decise di provare a salire a bordo per cercare di trovare delle risposte. Sotto gli occhi di ciò che restava degli abitanti del paese fissarono l’imbarcazione con delle cime, presero una lunga scala in legno e salirono sul ponte principale. Aprirono la porta d’ingresso, che conduce sottocoperta, e vi entrarono, per non uscirci mai più. Passarono secondi, minuti e poi ore, ma di loro non vi era più alcuna traccia. Non li si sentiva nemmeno muoversi all’interno del funesto corpo di legno, non si udivano schiamazzi o grida di pericolo.  A nulla servirono le urla disperate delle loro mogli o dei loro bambini che reclamavano indietro i mariti e i padri. Pianti isterici e grida mostruose caratterizzarono il resto di quella serata. Dolore, sofferenza e rabbia trasparivano negli occhi di coloro che erano rimasti. Donne e bambini iniziarono quindi a bisticciare e azzuffarsi, mostrando il loro lato più disumano e accusandosi l’un l’altro di aver provocato quella situazione. Ci si chiedeva infatti cosa sarebbe successo se, dopo i primi giorni, si fosse subito condotta la nave fuori dal porto, come qualcuno aveva saggiamente consigliato. Probabilmente ora saremmo stati ancora tutti qui, o forse no. Una cosa però era ormai evidente a tutti: il legame tra quella maledetta barca e le sparizioni. Il come però era ancora del tutto sconosciuto. E il peggio doveva ancora venire. La notte che seguì fu la peggiore, riuscii sì a dormire ma ero terrorizzato dagli incubi, moltissimi e diversissimi in un’unica dormita. E quando per lo spavento non dormivo, non riuscivo a fare altro che pensare a quella barca e a cosa, di terribile e maligno, sarebbe successo il giorno dopo. Sarei scomparso anche io? E se sì, cosa mi sarebbe successo? Dove mi avrebbero portato, e soprattutto, chi sarebbe venuto a prendermi? Tra tutti i sogni che si sono rincorsi quella notte, uno resterà eternamente impresso nella mia mente: sognai di trovarmi in un immenso campo di papaveri rossi, che, inizialmente, non riuscii a riconoscere. Dopo pochissimo, capii però che si trattava del campo di papaveri che si estendeva di fronte alla casa di campagna dove ero nato e cresciuto. Mi voltai e la vidi, bella e luminosa come me la ricordavo, circondata di fiori e alberi, sotto un raggiante sole splendente e un fiabesco cielo azzurro. Senti una voce, proveniente dal suo interno, che mi chiamava, e capii subito che si trattava di mia madre. Feci quindi per avvicinarmi, ma, improvvisamente, il cielo si coprì di immensi nuvoloni scuri e la mia felice casa mutò aspetto. Divenne scura, decrepita e cadente. Piano piano, pezzo dopo pezzo iniziò a crollare, mattone dopo mattone, vetro dopo vetro, finché non rimase nient’altro che un cumolo di polvere e macerie. Inizialmente non compresi il significato di quel sogno e, forse, non lo avrei compreso mai. Il mattino seguente mi risvegliai in un incubo ben peggiore: camminando per le vie del paese, mi accorsi di essere rimasto completamente solo. Tutte le strade erano completamente deserte, non vi era più nessuno, non si udivano voci, rumori, risate, pianti. Altre domande mi vennero spontanee: perché ero rimasto solo io? Cosa avevo di speciale? Cosa volevano da me? Passarono giorni, settimane e mesi, trascorsi in piena solitudine e nell’acquisita consapevolezza che quella che per qualcuno sembrava essere un premio, per la stragrande maggioranza degli uomini non era che una terribile condanna. Provai più volte a scappare dalla città per lasciarmi tutto alle spalle, dimenticare quanto fosse successo nell’ultimo anno e ricominciare da capo una nuova vita. Ma ogni volta che ci provavo non riuscivo a fare più di qualche passo oltre il confine che venivo richiamato dal fascino morboso e malato di quel dannato veliero, che come il canto di una sirena, mi attirava a sé. Era sempre lì, fermo nel suo possente mistero, nella sua trionfale malvagità, esalando un potente respiro di morte. Ero rimasto solo, senza nessuno. Solo con quella scomoda e inespugnabile presenza. Dio solo sa quali segreti celava al suo interno, cosa ne aveva fatto di tutte quelle persone e quali atrocità avesse ancora in serbo per me. D’altra parte, se veramente nessuno può fuggire al proprio destino, non resta quindi da fare altro che assecondarlo. Un giorno, constata la totale assenza di altre vie di fuga, immensamente confuso e privato di qualsiasi punto di riferimento, mi recai nuovamente sulla banchina, dove tutto era cominciato. Da allora era cambiato tutto, ma non era cambiato nulla. Il veliero giaceva ancora lì, e con esso il mistero che racchiudeva al suo interno. E se tutto questo fosse successo per colpa mia? Se in realtà fosse venuto per me, e per me soltanto? Da lì a poco avrei sicuramente trovato la risposta a tutte le mie domande. Vaneggiante, salii su quella scala, rimasta lì da quella fatidica notte, e mi arrampicai fino in cima. Posai i miei piedi sul legno cigolante e scricchiolante del ponte e, con il cuore che batteva all’impazzata, mi diressi verso l’oscura porta, la aprii e vi entrai. 

Nessun commento:

Posta un commento